Pubblicato da: Mattia Civico | 20 aprile 2009

Sabato al campo: uscendo dal cerchio.

L’atmosfera è strana: capiamo tutti che i giorni di vicinanza intensa stanno finendo. Ed è come se dopo un momento di vicinanza ed intimità particolare ci stessimo riprendendo un po’ le misure, consapevoli che ci sarà un distacco a breve. Il campo di Mirko sta tornando ad essere calmo: in questi giorni si era trasformato in un porto di mare, un continuo viavai di Sinti e di Gage (così ci chiamano loro…), per parlare, organizzare, capire, chiedere. Ora anche il vento dei giorni scorsi sembra essere essersi placato. La vita riprende. La mia e la loro.

Non mi piace fare bilanci, mi sa di chiusura e di termine, ma alcune considerazioni voglio provare a fissarle: ho incontrato innanzitutto delle persone, con una grande dignità. E quando il contesto di vita non è pienamente decoroso, la dignità salta ancora più agli occhi. È una forma di fierezza, che si fonda credo in questo caso sulla difesa e sulla affermazione di una cultura differente.Difendendo per esempio il loro senso di famiglia: la vita di clan abbraccia la famiglia nelle diverse generazioni. I camper fuori dal campo nomadi sono in cerchio e accolgono membri della stessa famiglia: in uno i padri, negli altri i figli con le loro mogli e i loro figli. Impensabile per loro spezzare questo cerchio. Uno dei motivi per cui in passato alcuni inserimenti in alloggio forse hanno fallito è proprio perché la dimensione e la conformazione del nostro abitare non consente la vita di clan, ma prevede lì accoglienza di unità monofamiliare. La microarea consente proprio questo trovarsi fra famiglie dello stesso nucleo. C’ è una vicinanza fra membri della stessa famiglia particolare. Non credo che sarebbe facile per noi sopportare questa vicinanza: la vivremmo come una invasione degli spazi privati. Abbiamo il mito dell’autonomia, dell’indipendenza, del “farcela da soli”. I Sinti, mi pare, hanno il mito della compagnia, dello stare insieme, della mutualità all’interno dello stesso clan. Più che della riservatezza, del segreto, all’interno dello stesso clan.

I Sinti sono estremamente intelligenti. Vivono in una condizione di bisogno in maniera consapevole ma non arrendevole. Spesso hanno rappresentato il loro stato di bisogno nella forma della rivendicazione e della lamentazione, apparendo assistenzialisti e rinunciatari. Devo constatare che oggi e non da ieri c’è una evoluzione di questo atteggiamento: la comunità Sinta di Trento si sta accorgendo che è necessario rimboccarsi le maniche, smettere i panni delle vittime per diventare protagonisti del loro destino: alcune persone che sono anche importanti punti di riferimento all’interno della comunità stanno spingendo nella direzione di una maggiore assunzione di responsabilità: la nascita di associazioni di Sinti, la disponibilità ad un confronto fra clan diversi, la possibilità di discutere della loro condizione in maniera assembleare e la stessa mia “ammissione” (che è stata vera accoglienza)fra loro per qualche giorno sono a mio avviso segni importanti di una nuova strada possibile.

La cultura del lavoro rappresenta un tassello difficile ma avverto non insormontabile: c’è mi pare la consapevolezza che il “giorno per giorno” non è sostenibile per le prossime generazioni come prevalente forma lavorativa. Vi sono delle esperienze di lavoro e di inserimento in azienda, specie delle donne Sinte, vi è la curiosità dei più giovani verso forme che diano maggiore stabilità e c’è anche in questo caso il ruolo importante di alcuni capi famiglia che stanno spronando la propria gente nella direzione di una evoluzione più compatibile con la cultura trentina. L’incontro con Con.solida segna a mio parere un importante tappa che, se le condizioni e le volontà lo permetteranno, potrà avere sviluppi positivi. Rispetto della tradizione, recupero delle competenze di un popolo nella definizione di una cornice che regolarizza le attività che vengono svolte. Il popolo Sinto è anche un popolo paziente. Alcune condizioni di disagio abitativo fuori e dentro il campo permangono inalterate da molti anni. È una pazienza che si fonda sulla impossibilità di rinunciare alla vita all’aperto e che si sposa con un profondo amore per il territorio che sentono anche come loro. Ieri sera un Sinto mi ha portato a vedere alcuni angoli di Trento che io non conoscevo e dopo un po’ di silenzio mi ha detto: “guarda… non è bellissima la nostra città?”. Capisco proprio che non possano e non vogliano rinunciare a questa forma di abitare, che si accontenta delle periferie urbane, che rinuncia agli agi e ai servizi, che fa i conti con il rumore del passaggio dei tir che passano nelle vicine rotatorie. Lo capisco e lo ritengo possibile. Non è la vita che farei e non è la vita che si conforma alle nostre esigenze, ma devo ammettere che ne intuisco il senso. Gli spazi ampi, il cielo sopra le teste e tutta la grande famiglia in cerchio. Tutto il resto per loro passa in second’ordine.

In questi giorni non  ho incontrato solo Sinti, ma anche e forse soprattutto molti Gage. E non ho proprio sentito lontananza e fastidio, ma al contrario la mia stessa curiosità, che avverto come una forma di apertura. Con la Comunità Sinta in questi giorni ho incontrato i funzionari della Provincia e dei Comuni di Trento e Rovereto,alcuni amministratori, operatori sociali, rappresentanti economici, semplici cittadini: incontri intensi e forti, che mi hanno lasciato l’impressione di una società pronta al dialogo, all’incontro e al riconoscimento.

I Trentini, la politica, i Sinti, noi Gage penso che non dobbiamo sprecare questo momento e “cogliere l’attimo” e dargli forza e sostanza: è uno spazio che chiede alcuni segnali di comprensione di rispetto e di apertura. Troviamo insieme delle strade, anche creative, per coniugare regolarizzazione con il rispetto delle specificità? Anche su questo tema io credo che il Trentino saprà essere forte, coraggioso e all’avanguardia.


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