Pubblicato da: Mattia Civico | 26 giugno 2015

diario dal Libano 4: i profughi hanno un nome

imageDa Il Trentino del 26 giugno 2015

Sono sessanta milioni i profughi nel mondo. Lo dice l’UNHCR, l’Alto commissariato per i Rifugiati delle Nazioni Unite. Fra questi anche le persone che abitano il campo siriano di Telabbas, nel nord del Libano. Sono scappati da Homs, una città che di fatto non esiste più. Azzerata dalle bombe, dai barili di esplosivo fatti cadere sulle case abitate.
Nel campo di Telabbas una tenda bianca con disegnate due colombe arancioni: è la tenda dei volontari dell’Operazione Colomba. Vivono qui da quasi un anno e mezzo. Loro amano conoscere e sapere il nome delle persone: sessanta milioni è un numero, ma anche noi dovremmo ricordare che sono persone, vite spezzate, destini interrotti. Dare un nome è la prima cosa che facciamo quando aspettiamo un figlio. Diamo dignità ed identità nel nome che diciamo. Sessanta milioni di profughi hanno un nome.
Accanto al campo vive una famiglia di cinque persone. Vivono in un piccolo garage per il quale pagano cento dollari al mese. Il padre è di origini palestinesi: pur venendo dalla Siria dove era profugo, qui in Libano non é considerato un Siriano. Dunque la sua famiglia non accede ad alcun aiuto. La figlia più grande viene accolta nella piccola scuola allestita nel campo di Telabbas. Nelle scuole dell’Unhcr non ci può andare. Ritorna a casa con in spalla una cartella più grande di lei. Il padre é contento perché sta imparando a scrivere. Si chiama Feisal.
I volontari dell’Operazione Colomba sono in fibrillazione. Stamattina all’ospedale di Tripoli dovrebbe essere operata al cuore una signora del campo. Unhcr pagherà il novanta per cento dei costi. Bisogna trovare in fretta ottocento dollari altrimenti l’intervento chirurgico salta. Parte una corsa contro il tempo. Telefonate ai contatti più disparati. Mentre sto facendo rientro verso casa mi dicono che ce l’abbiamo fatta. Ora il resto lo devono fare i medici. Lei si chiama Hala.
Stamattina incontro al campo un amico di infanzia. Un altro trentino in Libano. Lavora per DRC, una organizzazione Danese che si occupa di rifugiati. Ci dice che avendo il governo libanese sospeso di fatto i permessi dei profughi, si attende un inverno particolarmente difficile. Qualcuno sta partendo di notte dal porto di Tripoli per raggiungere la Turchia. Con tutti i rischi che la via del mare rappresenta. Lui si chiama Giovanni.
Appena arrivato al campo di Telabbas i siriani mi hanno dato un nome. Mi hanno chiesto: “Come si chiama il tuo figlio maschio maggiore?”, e io: “Riccardo”. Da allora mi chiamano “Abu Ric”, il papà di Riccardo. Mi hanno dato un nome, mi hanno ricordato chi sono.
Sessanta milioni di persone fuggono dalla guerra: sono senza casa e senza futuro. Prima di dire no alla loro accoglienza, prima di pensare che sono un problema o una minaccia, diamogli un nome.

Il mio è Abu Ric.


Risposte

  1. Bravo Mattia, anzi Abu Ric! Ho letto alcune cose, in particolare il tuo diario dal Libano e mi è piaciuto molto. Un abbraccio, continua a camminare in questa direzione. Piuma


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